sabato 2 gennaio 2010

capitolo 4. La shoah e la letteratura

Anna Frank, dal Diario,
Vorrei (1)

Son morto con altri cento
Son morto ch'ero bambino
Passato per il camino
E adesso sono nel vento,
E adesso sono nel vento.


(LETTRICE) Anna Frank, figlia di un banchiere di Francoforte, a causa delle leggi razziali, emigrò, ad Amsterdam, con la sua famiglia. Dopo l’invasione tedesca dell’Olanda, è costretta a trasferirsi con i suoi familiari, in un alloggio segreto, fino al 4 agosto del ’44, quando dei vicini li segnalano ai nazisti che penetrano nel rifugio li deportano tutti ad Auschwitz, e poi a Bergen Belsen. Pochi mesi dopo, Anna Frank, malata di tifo, morirà.
Il famoso Diario fu trovato nell’alloggio segreto e consegnato al padre, unico superstite della tragedia. Questi lo pubblicò nel 1947, col titolo tedesco, che, tradotto in italiano significa: Il retrocasa. Il diario è tenuto dal giugno del ’42 all’agosto del ’44. E’ la toccante testimonianza delle contraddizioni ed inquietudini di un’adolescente , e nello stesso tempo, della tragedia di un’epoca e di un intero popolo.
Nel diario si confida con Kitty. un’amica immaginaria. Riportiamo un brano, solo apparentemente poco rilevante, ma che mostra invece il dramma della privazione della libertà, a cui la situazione della persecuzione nazista l’ha costretta, proprio nel momento in cui sente nel suo cuore, colmo di mille desideri, il soffio vitale della primavera.

PRESENTATRICE) Sabato 12 febbraio 1944

LETTRICE)
Cara Kitty, splende il sole, il cielo è azzurro intenso, soffia un venticello meraviglioso e vorrei tanto… vorrei… tutto. Parlare, essere libera, avere amici, essere sola. Vorrei tanto… piangere! Mi sembra di scoppiare e so che se piangessi starei meglio, ma non posso farlo, sono inquieta, passo da una stanza all’altra, respiro l’aria di una fessura di una finestra chiusa, mi sento battere il cuore, come se dicesse: - esaudisci finalmente il mio desiderio.
Penso che sia la primavera, avverto il risveglio, lo sento nel corpo e nell’anima. Devo sforzarmi di agire in modo normale, sono totalmente confusa, non so cosa leggere, cosa scrivere, cosa fare, so soltanto che vorrei…



Primo Levi, Se questo è un uomo
L’ultima razione (2)

Ad Auschwitz tante persone
Ma un solo grande silenzio
È strano, non riesco ancora
A sorridere qui nel vento,
A sorridere qui nel vento


(LETTRICE) Primo Levi, nato a Torino nel 1919, laureato in chimica, nel 1944 subì, per la sua origine ebraica la deportazione e la prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz. Fu uno dei pochissimi superstiti solo perché la scarsità della manodopera consigliò ai Tedeschi, come ricordava egli stesso, di «sospendere temporaneamente le uccisioni». Dopo una intensa vita di lavoro, come chimico e letterato, è morto suicida a Torino nel 1987.
Il libro Se questo è un uomo, scritto di getto nel 1946, e pubblicato nel 1947, descrive la propria «discesa agli inferi», nell’inferno del Lager di Auschwitz. Il fatti seguono un ordine cronologico e mettono nudo i meccanismi che conducono progressivamente alla degradazione e alla disumanizzazione, cominciando con la spoliazione della dignità e la riduzione della persona a «cosa», ad un anonimo numero.
L’autore cerca di capire e di spiegare, a se stesso prima ancora che agli altri, i motivi di un fenomeno tanto perverso come l’antisemitismo, ma l’amara conclusione è che nulla può spiegare la tragedia dei campi di concentramento, e che forse «quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare».

Nel capitolo intitolato «Ottobre» racconta un giorno di «selezione», quando i vecchi, i malati e gli inabili al lavoro, separati dagli altri, vengono avviati alla camera a gas. Qualche errore è sempre in agguato.

(LETTORE) Il nostro Blockältester (Kapò) conosce il suo mestiere. Si è accertato che tutti siano rientrati, ha fatto chiudere la porta a chiave, ha distribuito a ciascuno la scheda che porta la matricola, il nome, la professione, l'età e la nazionalità, e ha dato ordine che ognuno si spogli completamente, conservando solo le scarpe. In questo modo, nudi e con la scheda in mano, attenderemo che la commissione arrivi alla nostra baracca. (…)
Qui, davanti alle due porte, sta l'arbitro del nostro destino, che è un sottufficiale delle SS. Ha a destra il Blockältester, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell'aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all'uomo alla sua destra o all'uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi.


(LETTRICE) A volte si scambiano le schede. Il vecchio Khun, che è stato fortunosamente risparmiato, prega dondolando il corpo, come fanno gli ebrei nella loro preghiera, ringraziando Dio che lo ha salvato dalla camera a gas. Scrive Primo Levi:

(LETTORE) «Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppo il greco che ha vent'anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell'uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn»


Ad Auschwitz tante persone
Ma un solo grande silenzio
È strano, non riesco ancora
A sorridere qui nel vento,
A sorridere qui nel vento



Capitolo quattro: La letteratura e la shoah

Elisa Splenger: il cerotto (3)

Io chiedo, come può un uomo
Uccidere un suo fratello
Eppure siamo a milioni
In polvere qui nel vento,
In polvere qui nel vento.


(Martina) Passiamo ad un'altra testimonianza di una sopravissuta, Elisa Splenger, nata a Vienna nel 1918, deportata ad Auschwitz e in altri campi di concentramento. Nel 1946 si trasferisce in Italia. Ora vive con la famiglia a Mandria, in provincia di Taranto
Scrive un libro, Il silenzio dei vivi, dove racconta il periodo vissuto tra i campi di concentramento, e fra questi anche quello dove fu detenuta e poi mori Anna Frank (Theresienstadt). E’ rimasta in silenzio per cinquant’anni come moltissimi altri sopravissuti non riuscendo a raccontare ciò che era loro capitato, perché pensava che non sono state ancora inventate le parole giuste per raccontare tanto dolore. Per questo nasconde con un cerotto il numero tatuato sul braccio con cui è stata marchiata. E’ stata l’insistenza del figlio a convincerla a scrivere perché non si dimentichi mai che a «Birkenau il portone della morte non si richiuderà mai più sulla memoria».
Riportiamo un breve episodio della sua storia dove racconta come il numero che gli era stato tatuato sul braccio scompaia sotto un cerotto. Tuttavia ma la ferita e nel corpo nell’anima è troppo grande perché possa essere sepolta per sempre nel silenzio

(Tiziana) «
Ci aspettava l’ultima fase di iniziazione a questa nuova vita: la marchiatura.
Questa operazione veniva eseguita con un ago rovente simile a un pennino e precedeva l’assegnazione alle baracche. (…)
Da quel momento scomparivamo come esseri umani, diventando numeri per la macchina di sterminio del Reich.
A me fu tatuato il numero A-24020, che ancora oggi deturpa il mio avambraccio sinistro. Molte volte ha suscitato curiosità in quanti non ne conoscevano il significato.
Tantissimi anni fa, quando ancora insegnavo, spesso i ragazzi mi chiedevano cosa significasse quel numero. Io rispondevo accennando ai campi di sterminio e alla mia triste esperienza, ma loro non capivano e qualcuno rideva.
Fu così che decisi di nascondere il mio tatuaggio con un cerotto, chiudendomi sempre più nel silenzio.
Non volevo sentirmi diversa, non volevo sentirmi osservata: decisi che avrei tenuto solo per me il mio passato, non parlai più. Un giorno Silvio, mio figlio, si accorse del cerotto sul braccio e preoccupato me ne chiese il motivo.
Gli confessai che volevo nascondere quel marchio di riconoscimento agli occhi degli altri: il loro scherno e la loro indifferenza mi ferivano».


Capitolo quattro: (La shoah e la letteratura)

Primo Levi, Se questo è un uomo

Il pane della discordia - (4)

Ancora tuona il cannone,
Ancora non è contenta
Di sangue la belva umana
E ancora ci porta il vento,
E ancora ci porta il vento


Un cucchiaio più prezioso dell’oro

LETTRICE) La fame non consiste nelle semplice sensazione di aver saltato un pasto è qualcosa di molto più terribile e ci vorrebbe un’altra parola per esprimerlo. Così come capita per la parola «inverno». Nel lager questo termine assume un significato completamente diverso rispetto a quello che noi siamo abituati a considerare.

LETTORE)
«Noi diciamo «fame », diciamo «stanchezza », «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. (…) Se i Lager fossero durati piú a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l'intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene».


LETTRICE) La fame nel Lager è «cronica» «che fa sognare la notte e siede in tutte le membra del nostro corpo» e accompagna la vita dell’internato giorno e notte. «Il lager è la fame: noi stessi siamo la fame, la fame vivente». La fame provoca «fantasie» simili a quelle sessuali. Levi sogna la pasta asciutta appena cotta nella sua casa di Torino e prelibatezze di ogni tipo.
Se un internato nel Lager si adegua completamente alla vita che gli viene imposta dall’organizzazione del campo, è destinato a soccombere, ad essere uno dei tanti sommersi della storia. La sveglia è alle quattro e la distribuzione del pane alle cinque e mezza.

(LETTORE)
«Ed ecco giunge, ahi quanto presto, la sveglia. L'intera baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accendono, tutti intorno a me si agitano in una repentina attività frenetica: scuotono le coperte suscitando nembi di polvere fetida, si vestono con fretta febbrile, corrono fuori nel gelo dell' aria esterna vestiti a mezzo, si precipitano verso le latrine e il lavatoio: molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane, del pane-Brot-Broit-chleb-pain-lechem-kenyer, del sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua. È una allucinazione quotidiana, a cui si finisce col fare l'abitudine: ma nei primi tempi è così irresistibile che molti fra noi, dopo lungo discutere a coppie sulla propria palese e costante sfortuna, e sfacciata fortuna altrui, si scambiano infine le razioni, al che l'illusione si ripristina invertita lasciando tutti scontenti e frustrati.
Il pane è anche la nostra sola moneta (…) » (p. 33)


(LETTRICE) La sopravvivenza può essere sperata soltanto se i condannati riusciranno a contravvenire alle regole garantendosi, qualche piccolo oggetto non consentito, come un cucchiaio, che è possibile ottenere per tre «razioni di pane» oppure un chiodo, un bottone e uno spago, un filo di ferro o altro. Il Lager non fornisce il cucchiaio, simbolo della ritualizzazione del mangiare, i deportati devono consumere la «zuppa» come degli animali. Gli infermieri quindi traggono notevole profitto dal commercio dei cucchiai. I malati, in infermeria possono compare un cucchiaio con il manico, e una lama affilata che serve anche da coltello, ma quando usciranno «guariti», il cucchiaio verrà loro sequestrato e rimesso in vendita nella Borsa. Il «cucchiaio è un bene così prezioso che viene lasciato in eredità da quelli che «partono» a quelli che «rimangono».
Il pane che, anche nella religione cristiana, è segno di comunione e di condivisione. E’ un cibo emblematico, indispensabile che viene spezzato per essere diviso e donato. Nel campo di concentramento invece diventa una merce contesa, «moneta» di scambio per ottenere altri beni. Il pane vale più dell’oro e si racconta di alcuni deportati, si tolgono il rivestimento d’oro dei denti per ottenere una razione di pane in più. Il ritorno alla condivisione del pane diventerà alla fine del libro, il segno della ritrovata umanità e la fine della logica del Lager e della disumanizzazione dell’uomo.

(LETTORE)
«Quando fu riparata la finestra sfondata, e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitre anni, tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata.
Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: «mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino», e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto. Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi.
Credo che si potrebbe fissare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Haftlinge siamo lentamente ridiventati uomini» (p. 171)

Io chiedo quando sarà

Che l'uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà,
E il vento si poserà.

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